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al testo di Alberto Rizzi
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PARCO D’AUTUNNO
Saranno passati cinquant’anni, dall’ultima volta che ci incontrammo, che fu quando ci lasciammo. Qui, nello stesso parco dove la nostra relazione ebbe inizio.
Il cancello è arrugginito, ma riesco a passarlo lo stesso, senza sforzo per fortuna. I grandi alberi mi accolgono con i loro rami imperlati di muschio, le foglie che stanno cadendo in questo autunno inoltrato, uno spesso strato di muschio anche sui tronchi verso nord; non ha piovuto, ma l’erba è bagnata, perché c’è quasi sempre più ombra che sole e la guazza notturna ora non s’asciuga nemmeno quand’è pomeriggio. È bello il contrasto tra ciò che è apparentemente morto, come queste siepi alla mia destra, ormai nude, e l’erba al suolo: che in certi punti ha un colore nuovo, malgrado l’inverno debba ancora cominciare.
Riconosco gli alberi uno a uno, ricordo quello che ne dicevamo io e lei e sono certo che anche i due grandi cedri del Libano, messi a segnare la biforcazione del sentiero riconoscono me. Lo sento. Mi avvicino e provo a toccare quello di destra. E proseguo.
Il grande padiglione Liberty che accoglieva le nostre confidenze, i nostri abbracci, è sempre là: lungo la vegetazione incolta del sentiero che piegava a sinistra, uno scheletro di ghisa sverniciato. Solo i tavoli di marmo sono rimasti, del vecchio arredo: sbrecciati qui e là e anneriti dall’umido, ma troppo ingombranti per essere portati via. Ora l’arredo è le trine dei ragni, anche loro imperlate dell’umidità di questa stagione. Come appoggiato a uno di quei tavoli, lascio che i ricordi mi tornino dentro: per primo quello della frase, incisa su un banco di scuola, che fece iniziare la nostra relazione. Una scritta che recitava tristezza, quasi a presagire la fine non voluta, quella fine che da allora mi porto dentro e che mi fa tornare a volte qui, malgrado il peso degli anni.
E con i ricordi, mi ritornano le immagini: lei la posso vedere come fosse allora, lei e le altre persone che venivano qui, gli altri amici… Come se il tempo si fosse fermato. Immagini che m i riportano indietro a uno di quei grandi cedri. Fanno male; fanno male come ogni altra volta. E capisco che anche stavolta è il momento di andare. Anche l’ultima immagine che sempre mi rimane di questo luogo, questo prato che malgrado la stagione fa intuire la serenità della vita che continuerà alla prossima primavera, fa male.
Ma non riesco a non tornare qui, di tanto in tanto. Saranno cinquanta, gli anni trascorsi da quando lei mi lasciò? O saranno cinquanta dall’ultima volta che sono tornato qui? Il tempo ha preso un’altra forma, da quando mi fermai a dondolare da un ramo di quel grande cedro del Libano, quello che indica il sentiero che nel parco piega a sinistra. Non che il tempo abbia più molta importanza. Ma ancora non riesco a non tornare qui. |
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